Fonte VITA (del cui Comitato Editoriale Anffas è parte) | Articolo a cura di Sara De Carli - «Intendiamoci: come si conviene tutto è sempre terribilmente ironico, argutamente spiazzante e va da sé tutto è sempre intelligentissimo anche se altrettanto naturalmente sempre con l’aria di far finta di niente»: uso le stesse parole che Ernesto Galli Della Loggia utilizza per recensire il libro di Chiara Valerio, La tecnologia è religione, per commentare il passo precedente dello stesso suo articolo (suo di Galli della Loggia), quello in cui dichiara fallita la scuola inclusiva, senza dirlo. Con l’aria di far finta di niente appunto, ma con l’atteggiamento di dire una cosa arguta e intelligentissima.

Il passaggio – lo avrete letto, sta suscitando moltissime polemiche anche sui social – è apparso sabato 13 gennaio sul Corriere della Sera. Recensendo il libro Una scuola esigente di Giorgio Ragazzini, Ernesto Galli Della Loggia – già stranoto per la sua visione nostalgica di una scuola severa, meritocratica, classista, simboleggiata dalla cattedra sulla predella rialzata – va all’attacco della scuola inclusiva. Una scuola in cui «convivono regolarmente accanto ad allievi cossiddetti normali anche ragazzi disabili gravi con il loro insegnante personale di sostegno (perlopiù a digiuno di ogni nozione circa la loro disabilità), poi ragazzi con i Bes (Bisogni educativi speciali: dislessici, disgrafici, oggi cresciuti a vista d’occhio anche per insistenza delle famiglie) […] e infine, sempre più numerosi, ragazzi stranieri incapaci di spiccicare una parola d’italiano. Il risultato lo conosciamo».

Una scuola di classe

A parte il riemergere della visione classista della scuola che Galli Della Loggia ha (questo è assodato e non ce l’ha solo lui, ma è la stessa visione per cui ormai confondiamo la scuola d’eccellenza con quella che ha risultati eccellenti in uscita, ma se questo è il frutto di una selezione in entrata il gioco è evidentemente truccato e la professoressa Elisabetta Nigris, che insegna Progettazione didattica e valutazione a Scienze della Formazione Primaria in Bicocca, lo spiega molto bene qui), il problema più grave in questo pezzo di Galli Della Loggia a mio giudizio non sta in quello che lui scrive (certo, ciò che scrive urta, con quell’uso così sprezzante delle etichette) ma in quello che non scrive. Lo sappiamo tutti che l’inclusione scolastica italiana non è perfetta, anzi che ha moltissime criticità. A VITA da vent’anni mi occupo di scuola esattamente sotto questo profilo, quello dell’inclusione, e non so quante volte ne abbiamo denunciato i problemi.

Le criticità dell’inclusione scolastica

Abbiamo raccontato anche noi la “resa” di una mamma-insegnante dinanzi ad una scuola che per suo figlio non era luogo di benessere e inclusione, anzi. Nella storia di Maria Grazia e Jacopo, che quest’anno invece è tornato a scuola, non abbiamo avuto paura di usare la parola “ipocrisia”.

Abbiamo gridato anche noi che l’inclusione scolastica è una «macchina che gira a vuoto»: non l’ho detto io, l’ha detto Roberto Speziale, presidente di Anffas, in un’analisi molto dettagliata del settembre 2021. Ma la differenza è che la pars destruens è accompagnata sempre dalla pars costruens, dalla volontà di garantire a tutti il diritto ad una inclusione scolastica reale.

Lo stesso Speziale infatti in queste ore, sui social, rispondendo al commento di una mamma che raccontava la sua esperienza negativa con la scuola, ha detto: «Non cadiamo nel trabocchetto che posizioni come quella che il prof Ernesto Galli della Loggia potrebbero sottendere. Visto che per i motivi più disparati, ed è certamente vero, molto spesso l’inclusione scolastica rimane una “chimera” che facciamo? Torniamo alle scuole speciali ed alle classi differenziali? Piuttosto continuiamo a denunciare le tante cose che non vanno ma, allo stesso tempo, difendiamo le tante buone prassi e i tanti operatori che, con impegno, dedizione, passione e competenza, svolgono al meglio il loro compito. L’inclusione scolastica rappresenta una conquista per il nostro Paese (così non è in molti altri paesi di Europa e del mondo) e va difesa, senza se e senza ma. Pur non negando che tante sono le le cose che non vanno».

Vincenzo Falabella, presidente nazionale della Fish, intervistato da Alex Corlazzoli su Il fatto quotidiano ha espresso tutta la sua preoccupazione: «Forse qualcuno in questo Paese vuole tornare ad Aktion T4, lo sterminio nazista delle persone con disabilità? Dietro parole come quelle scritte in quella recensione c’è l’intenzione di ghettizzare. Lo dico in riferimento anche a quanto affermato sui ragazzini stranieri. Della Loggia ha avuto una caduta di stile che rinvio al mittente perché in questi anni i nostri ragazzi e le loro famiglie hanno dimostrato che l’inclusione non è un mito».

Non ci crediamo più?

Gli inclusioscettici, per dirla con Dario Ianes, ci sono. Abbiamo rilevato anche noi con preoccupazione il fatto che all’inclusione scolastica in tanti cominciano a non crederci più. Secondo una ricerca recente del Centro Studi Erickson l’inclusione scolastica è «utopistica e irrealizzabile» per una persona su tre (32%). E se la disabilità è grave, gli insegnanti che pensano che una vera inclusione non è fattibile arrivano al 47%. Più sono giovani, più sono scettici. 

Lo diciamo da anni che è uno scandalo che un terzo degli insegnanti di sostegno in cattedra in realtà non abbia alcuna specializzazione e sì, anche secondo me gli impatti dell’inclusione scolastica dovrebbero essere ben maggiori se consideriamo che (dati Tuttoscuola) gli insegnanti di sostegno sono «oltre 200mila, più di Carabinieri e Poliziotti messi insieme».

Il problema quindi non sono le criticità del sistema scolastico italiano in rapporto agli obiettivi dell’inclusione, né che Galli Della Loggia se ne accorga e le racconti: lo fanno già benissimo, continuamente e con maggiore e ben più legittima incazzatura le famiglie, i docenti, i rappresentanti delle associazioni di persone con disabilità.

Il problema è che Galli Della Loggia chiuda il suo articolo con quella frase lì: «il risultato lo conosciamo». Che allude neanche troppo velatamente al fatto che quella che lui ha appena dipinto come una immane farsa vada – per logica – immediatamente sospesa. Ma se Galli Della Loggia pensa che all’inclusione scolastica dobbiamo rinunciare, almeno lo dica. Non sarebbe il primo peraltro. Ma almeno argomenteremmo ad armi pari (non lui ed io, ovviamente, ma il Paese).

Perché io invece penso che dalla legge 517 del 1977 (e prima ancora dalla 118 del 1971, con cui il nostro Paese ha avviato, nella forma della sperimentazione pedagogica, l’inserimento di alunni con disabilità nelle scuole comuni) non dobbiamo tornare indietro e che all’inclusione scolastica nonostante tutte le criticità non dobbiamo rinunciare. Casomai l’inclusione dobbiamo migliorarla.

Cosa fare?

La risposta al “come fare?” non è scontata né pacifica, ne sono consapevole. Lo so benissimo che tra esperti, insegnanti, famiglie e docenti ci sono posizioni contrastanti sui Pei, sul decreto interministeriale 182/2020, sulla cattedra mista, sulle carriere separate, sulle tabelle dell’allegato C1 e chi più ne ha più ne metta.

Lo so benissimo che in classe arrivano anche alunni che non parlano una parola di italiano e che è difficilissimo gestire queste situazioni, ma è anche vero che – ce lo ricordava Anna Granata citando Loris Malaguzzi – «il bambino ha cento lingue, ma gliene rubano novantanove».

Lo so benissimo che in dieci anni le diagnosi di Bes e Dsa sono letteralmente esplose e che questo sta facendo interrogare tanti (a cominciare da Daniele Novara) sul fatto che forse la scuola ha delegato alla diagnosi sanitaria situazioni che invece sono eminentemente educative. «Il modello biomedico è rassicurante e utile, ma è pericoloso nella misura in cui mette sullo sfondo l’aspetto educativo: ma se insegnamento e apprendimento sono una interazione, non sarebbe più onesto spostare lo sguardo dai “disturbi dell’apprendimento” ai “disturbi dell’insegnamento”?», si chiedeva per esempio in un recente convegno Rosy Paparella, formatrice, già Garante per l’infanzia e l’adolescenza della Puglia.

In queste ore Cristiano Corsini, ordinario di Pedagogia sperimentale all’Università Roma Tre, ci ha ricordato che «la verità è che l’inclusione, come la democrazia, costa investimenti e sforzi. Il fatto che una reale inclusione nelle nostre aule spesso sia negata non è un buon motivo per negare il diritto all’inclusione. L’inclusione è un processo che arreca vantaggi a tutti gli individui, anche a quelli che certe persone definiscono “normali”. Crescere in contesti inclusivi è infatti il miglior modo per mettere in discussione il mortifero concetto di “normalità” ed evitare, una volta divenuti adulti, di proporre idee tanto disumane come quelle che sono state discusse ieri».

Dopo mezzo secolo di presenza di alunni con disabilità nelle aule, cosa possiamo dire dell’inclusione? È questa la domanda che avevamo posto per i 50 anni della legge 118 a Luigi d’Alonzo, professore ordinario di Pedagogia Speciale all’Università Cattolica di Milano e presidente della SiPeS-Società italiana di Pedagogia Speciale. Lui aveva risposto che «l’esperienza pedagogica conferma che l’inclusione è possibile. Nonostante il grido di dolore che purtroppo e ancora, si percepisce da parte dei genitori delle persone con disabilità, quando il loro figlio a scuola non incontra un ambiente educativo e didattico competente e appassionato, possiamo affermare che l’esperienza educativa e didattica ideata dal nostro Paese, unica al mondo per l’intensità e l’universalità della sua proposta in tutti i cicli scolastici, è credibile e praticabile, se si lavora bene».

E fra le quattro condizioni sine qua non che individuava per lavorare bene, al primo posto c’era il «credere nelle potenzialità dell’alunno con disabilità o con problemi»: prima della competenza, della specializzazione, delle tabelle, a fare la differenza è il credere o no in una persona.

Un monitoraggio dell’impatto

Prima di buttare il bambino con l’acqua sporca, perciò, caro Galli Della Loggia, converrà con me che una cosa servirebbe: un monitoraggio vero, nazionale, dell’impatto dell’inclusione scolastica (non solo del numero degli alunni con certificazione iscritti o di quelli con un Pei o Pdp o del numero di insegnanti di sostegno). Perché in realtà al di là delle esperienze singole o raccolte da qualche associazione o indagine, a livello di sistema questi dati non li abbiamo e quindi non sappiamo cosa succede per davvero. Lo chiediamo al ministero, a Indire, a Invalsi, alle università o a tutti insieme. Potrei rimanere sorpresa io, magari. O potrebbe rimanere sorpreso lei e ricredersi. Ascoltiamo la realtà, ma quella di oggi: poi ne riparliamo. Le proposte di miglioramento che saprà avanzare lei saranno certamente più opportune di quelle che posso fare io.