Fonte www.anffastorino.it - La pandemia ha avuto un impatto significativo, inaspettato e profondo sulla vita di tutti noi. Ma ha colpito in modo particolare le persone con disabilità e le loro famiglie, aggravando una situazione già complessa e difficile e mettendone ancora di più in evidenza debolezze e criticità.

A che punto siamo oggi, con una campagna vaccinale che avanza e le prime riaperture del Paese? Ne abbiamo parlato con Roberto Speziale, Presidente Nazionale Anffas, l’Associazione Nazionale Famiglie di Persone con Disabilità Intellettiva e/o Relazionale.

“Nel dramma dell’emergenza pandemica, le persone con disabilità intellettive e dello sviluppo, insieme alle loro famiglie, sono state in assoluto le più penalizzate” spiega Speziale. “Una conseguenza oggettiva, legata proprio a questa tipologia di disabilità, che rappresenta circa il 70% di tutte le sue forme”.

Le persone hanno dovuto interrompere la loro routine quotidiana, le relazioni interpersonali, i loro percorsi affettivi prima ancora della frequenza dei servizi e della attività. Per un soggetto con disabilità intellettiva e dei disturbi del neurosviluppo cessare improvvisamente la propria routine è un atto drammatico, perché altera un equilibrio magari faticosamente raggiunto. Inoltre interrompere gli stimoli – che vengono sia all’interno dei servizi sia da tutte le attività quotidiane, la scuola, i momenti di svago – non consentono a queste persone di mantenere lo status che hanno acquisito nel tempo. Nel momento in cui purtroppo vengono a mancare stimoli costanti e adeguati, si torna indietro”.

Presidente Speziale, che tipo di testimonianze ha ricevuto l’Anffas dalle famiglie di persone con disabilità intellettive in questo anno e mezzo di emergenza Covid?

“Cosa è successo in questo anno e mezzo? Innanzitutto abbiamo perso anni e anni di duro lavoro e molte di queste persone presentano evidenti segni di regressione, di comportamenti psicotici che prima non c’erano. Espressioni di un disagio che solitamente fanno fatica ad esprimere, con tutta una serie di problematiche che solo in queste ultime settimane si stanno palesando in tutta la loro drammaticità.
C’è poi anche un altro aspetto da considerare, non secondario: l’appesantimento dello stress correlato per i familiari. In una famiglia in cui vive una persona con disabilità, già il carico precedente alla pandemia era abbastanza significativo; una situazione in cui si nota una regressione o un peggioramento provoca sofferenza e smarrimento. Di pari passo c’è anche la difficoltà degli operatori e dei professionisti, che si ritrovano così a dover ricominciare un percorso: parliamo soprattutto dei disturbi dello spettro autistico, che necessitano di strategie precise e comportamenti definiti da mettere in atto.
Ci vuole un attimo ad alterare l’equilibrio psicofisico raggiunto per un una persona con disabilità intellettiva: ritrovarlo e riconquistarlo diventa difficile. Il quadro complessivo è di grande preoccupazione. Io l’ho vissuto in prima persona con mio figlio Valerio, di 24 anni, che ha la sindrome di Down. Le difficoltà possono essere comprese, ma estremamente complicato diventa razionalizzarle.

Nelle ultime settimane, segnate dalla riaperture delle attività e di un parziale allentamento delle misure restrittive, c’è stato un miglioramento del quadro generale per ciò che riguarda il mondo della disabilità?

Certamente l’elemento progressivo delle vaccinazioni e delle riaperture ci fa guardare al futuro con maggiore speranza. Però le difficoltà stanno emergendo proprio adesso. Ora che stanno riprendendo tutte le attività e i servizi, ci troviamo di fronte persone diverse: notiamo una percentuale, non bassa, di comportamenti mutati. Nessuno di noi, neanche gli operatori, sono preparati a trovare delle strategie per superare questo quadro inedito. Prima dell’emergenza sanitaria una o due persone, per svariati motivi, potevano interrompere le terapie: non era mai accaduto prima che il fenomeno fosse invece così diffuso. Bisogna quindi trovare nuovi equilibri, nuove modalità e nuovi approcci. Il problema va osservato da un punto di vista più ampio: parte dalle persone con disabilità, ma coinvolge anche le famiglie e gli stessi operatori.

Quindi ora, come lei stesso ha sottolineato, si è aggiunta la necessità di trovare delle strategie per affrontare uno scenario totalmente nuovo.

Sì, ma temo che ancora questo fenomeno sia poco valutato e preso in considerazione dalle istituzioni. Si commetterebbe un grande errore se venisse banalizzato.

Si riferisce alle misure da mettere in campo da parte del Governo?

Certo, questi sono fenomeni che necessitano anche di un razionale scientifico: è la scienza che deve interrogarsi e dare delle soluzioni. Se il disagio provocato dalla pandemia nelle persone con disabilità dovesse peggiorare, si verificherebbe un impatto significativo sui servizi anche da un punto di vista economico. Ulteriori difficoltà, laddove erano presenti già delle criticità non certo banali, rischia di portare il sistema a un punto di rottura.
Chi ne ha le competenze deve dare delle risposte urgenti. In questo anno e mezzo le persone con disabilità hanno spesso subìto senza che ci fosse un’effettiva giustificazione o senza che venissero prese in considerazione le loro esigenze. Come accaduto all’inizio del lockdown, quando abbiamo impiegato mesi a far capire che, per una persona con disturbo dello spettro autistico, uscire a fare una passeggiata non fosse un privilegio, ma una reale necessità. Da un punto di vista pubblico, le famiglie sono state lasciate completamente sole: hanno avuto accanto solo le associazioni e i volontari.

Cosa pensa degli interventi per la disabilità che sono state inserite nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza? Le reputa sufficienti?

No, non sono sufficienti perché il problema è strutturale. La disabilità aveva dei problemi già prima della pandemia. Il Pnrr ha al suo interno delle soluzioni interessanti, come la legge quadro sulla disabilità, che rappresenta un elemento positivo. Vengono pianificati degli interventi non ordinari, ma queste misure non avranno degli effetti immediati. Bisognerebbe pensare, per esempio, a un coordinamento dei servizi per tutte le Regioni. Nascere in Sicilia, o in Calabria, spesso significa essere persona con disabilità due volte, perché queste aree non sono in grado di offrire l’assistenza di cui necessitano. Un modello, secondo cui una persona con disabilità, che sia nata a Palermo o a Trento, abbia uguale accesso al servizio di parità – includendo tutto ciò che è racchiuso in un progetto di vita: scuola, salute, tempo libero – oggi non c’è.
Il Piano Nazionale descrive, tra le premesse, il problema della disomogeneità sul territorio, ma poi non vengono indicati gli interventi da effettuare. Il piano da solo non può essere risolutivo: va affiancato da tutta una serie di misure ordinarie che consentano, alle persone con disabilità e ai loro familiari, di avere i giusti sostegni.

Parliamo della campagna di vaccinazione: sono state riscontrate delle criticità per l’accesso al vaccino anti-Covid per le persone con disabilità e i caregiver. A che punto siamo oggi?

Sicuramente il miglioramento c’è stato, ma è stato faticoso a trovare attenzione per determinate problematiche. Per esempio, alcuni sistemi regionali di prenotazione, come quello della Regione Lazio, non consentivano alle persone con la legge 104 di prenotare il vaccino. Ancora oggi, per mancanza di dosi, mio figlio con sindrome di Down, che era rientrato tra le categorie prioritarie della campagna, verrà invece vaccinato il 12 maggio. Il sistema è molto migliorato, ma non posso dichiararmi soddisfatto: per arrivare a questo punto abbiamo dovuto lottare.
Devo ringraziare la ministra per le disabilità Stefani, del Governo Draghi, che si è molto spesa per la causa, ma in precedenza i mesi di ritardo e approssimazione li abbiamo subiti tutti.
Da qui in avanti grazie alle vaccinazioni, ai contagi che stanno diminuendo, alla riapertura della scuola e delle residenze, possiamo guardare al futuro con più fiducia.

Le famiglie delle persone con disabilità purtroppo si ritrovano spesso a dover lottare per i propri diritti. Secondo lei la pandemia ci ha insegnato qualcosa?

C’è un aspetto su cui voglio insistere: ottimismo e positività sono necessari. Come famiglie di persone con disabilità, noi lo facciamo da sempre: quando la disabilità è arrivata nelle nostre vite, se non fossimo stati ottimisti e positivi, probabilmente non ce l’avremmo fatta. Ma non possiamo guardare a una nuova normalità senza tener conto degli errori passati. Ci sono stati tanti sbagli e tante disattenzioni; ora siamo pronti e siamo i primi a voler collaborare per trovare delle soluzioni, però senza commettere gli errori di prima. Altrimenti i nostri sacrifici e la nostra sofferenza non sono serviti a nulla. Le regioni, il terzo settore, i territori, le associazioni, le famiglie, le persone con disabilità: dobbiamo tutti allearci per una nuova consapevolezza culturale. Innanzitutto l’amministrazione pubblica deve comprendere che la disabilità ha bisogno di risposte urgenti. Il dato che noi abbiamo è che su circa di 3,6-3,8 milioni di persone con disabilità che oggi vivono in Italia, più del 60% sono a carico delle famiglie, non accedono ai servizi. La legge per il riconoscimento dei caregiver familiari giace in Senato da due anni, non abbiamo più ricevuto risposte.
La speranza, che non abbandoniamo mai, deve essere supportata dalla consapevolezza e dalla forte richiesta allo Stato che la disabilità non sia considerata un problema privato, perché non lo è: è un problema sociale. Che necessita di risorse, servizi e sostegno, ad oggi anche psicologico, pervenire fuori da questa pandemia insieme.